la copertina della rivista Communio su cui venne pubblicato questo articolo

Contemplazione e cosmologia

Presupposti cosmologici alla “contemplazione nel concreto”

Pubblicato in Communio, n.108, nov-dic 1989, pp. 66/83.

1. [L'esigenza di una “contemplazione nel concreto”]

Vi è un’esigenza profonda nella cultura e nell’umanità contemporanea, tanto profonda quanto, come spesso avviene,inconfessata. E in questo come in altri casi è toccato a dei pensatori cristiani non sterilmente arroccati su posizioni autodifensive, riconoscere e valorizzare tale istanza. Si tratta, in termini molto sintetici, dell’esigenza di incontrare l'Assoluto in un concreto, la Totalità nella frammentazione del particolare, l'Eterno nel temporale. Superando così quella riduzione intellettualistica del Cristianesimo, che vedeva nella concretezza singolare e temporale qualcosa di opaco e non significativo,se non in maniera puramente negativa, come occasione di prova e di tentazione da vincere; qualcosa insomma di non poi molto diverso dalla non sensatezza dell’on katà symbebekòs aristotelico, o dell’in-sé sartriano. In tale riduzione, prevalsa in età moderna, il ruolo determinante non è quell’Evento, storico e concreto-singolare, ma dell’universalità della dottrina e della norma morale [1].p. 66

È merito di personaggi come Romano Guardini, Erich Przywara, Teilhard de Chardin, ma soprattutto von Balthasar, aver saputo rispondere a tale istanza. La quale, possiamo aggiungere, se è coessenziale allo stesso Cristianesimo, essendo implicata nella centrale affermazione che il Verbo si è fatto carne, ha potuto essere esplicitata e declinata organicamente solo nel si intende il XX secolonostro secolo.

Un notevole contributo fu la tesi guardiniana dell’unità sensitivo-intellettiva come condizione per intus-legere nel concreto materiale un significato formale-universale: lo sguardo umano non è un'attività fisiologica, ma è orientato e permeato dall’intelligenza; la quale a sua volta non è lavorio dialettico su idee, astratte, ma implica un continuo riferimento alle cose, all’esperienza [2]. In questo modo il dato esperito non si può più presentare come la massiccia e opaca materialità del meccanismo, come sarebbe se fosse oggetto di una pura sensazione; ma la conoscenza sensitivo-intellettiva coglie, dentro la concretezza materiale, il trasparire di una forma, di un significato universale, ultimamente del Significato di tutto, il Verbo di Dio.

A sua volta Teilhard de Chardin [3] concorse,seppur con un linguaggio non sempre felice, alla formazione di una nuova cultura teologica, in cui il rapporto con l'Assoluto passasse attraverso la concretezza del particolare. Così non si trattava più, per lo scienziato-teologo gesuita, di scegliere tra il Cielo e la Terra come tra due alternative: si va al Cie p. 67 lo attraverso la Terra, che è permeata della presenza del Cristo, suo Centro, Chiave di volta, Alfa ed Omega [4].

Ma la risposta teologica più compiuta viene senza dubbio dal von Balthasar e dalla sua concezione del ruolo della bellezza come gloria, luminosa epifania del divino in una determinatezza storico-particolare. Non alla pura affettività, di per sé volta al bene concreto, né alla pura razionalità, volta al vero universale, ma alla percezione della bellezza spetta il ruolo di pietra angolare. Quella bellezza [5] che è appunto sintesi di singolarità e universalità, essendo l'emergere dell’universale in un particolare, come presentito dalla peraltro tutta implicita formula tomistica di «splendor formae», il rifulgere della forma dentro l’involucro particolarizzante di un concreto materiale, attrae l’affettività in forza della sua concretezza, ma apre al tempo stesso alla totalità che inviluppa in se’ [6].

Questa esigenza, e il tipo di risposta accennata qui sopra, riguarda il modo di concepire il Cristianesimo in genere; ma essa riverbera una sua luce anche sul problema su cui qui vorremmo svolgere qualche riflessione, quello cioè della significatività del cosmo e della sua, se così possiamo dire, contemplabilità.

Dal pensiero dei teologi ricordati emerge un concetto di contemplazione, che si distacca tanto dall’intellettualismo classico quanto dall’attivismo moderno. Quella dei greci era contemplazione, sguardo intellettuale intenzionante una realtà originaria, di un universale,che richiedeva di prescindere dal singolare, dalla concretezza materiale. Essa implicava una fuga; un distacco dalla contingenza particolare del mondo della vita quotidiana, drammaticamente irriducibile all’aulica, ma puramente naturale misura del logos filosofico. All’opposto la corrente egemone della cultura moderno-contemporanea considera impossibile la contem- p. 68 plazione: la conoscenza infatti non attingerebbe l’essere. Ogni forma di rapporto con l’Assoluto non potrà così che essere uno slancio sentimentale, privo di spessore razionale e affidato all’arbitrio del soggetto, individuale o collettivo. Al quale arbitrio liberamente progettuale è pure affidato il compito di plasmare la vita e la civiltà umane. Queste ultime infatti, private di una ossatura ontica (o almeno dichiarata questa inconoscibile), sono ridotte a docilmente manipolabile materia informe, plastilina indefinitamente disponibile al progetto ideologico.

I tratti che delineano la contemplazione cristiana sono in qualche modo una sorte di sintesi, su un piano superiore, di queste due posizioni: si da’ si’ contemplazione, lo sguardo della mente può poggiare sulla roccia di una verità ultima, non è costretto a fluttuare sulle sabbie mobili dell'apparenza (contro i moderni, con gli antichi). Però l'apertura alla totalità passa attraverso un particolare, delle circostanze concrete che ineriscono all'ambito vitale con cui il soggetto è attivamente [7] impegnato (il che riprende l’istanza moderna di attenzione alla particolarità materiale e all’azione che con essa ha a che fare).

Se ora volessimo sviluppare sistematicamente il discorso, vedremmo che la sua fondazione si articola su più livelli: un livello teologico, che è stato svolto con sapiente magistralità dal von Balthasar, soprattutto nei volumi di Gloria [8]; un livello ontologico, in cui si tematizzi il rap- p. 69 porto tra finito e Infinito nella prospettiva di cui andiamo parlando; un livello antropologico,in cui stabilire da un lato (soggettivamente) la corretta relazione tra intelletto e volontà, e dall’altro (oggettivamente) come si fondi, in una adeguata impostazione del rapporto tra le componenti della natura e della personalità umana, la possibilità del rifulgere del Verbo nella sua immagine creata [9]; e vi è infine un livello cosmologico, che è quello che qui ci interessa.

Si tratta di sapere a quali condizioni il cosmo naturale debba essere concepito, perché si possa dare contemplazione, attraverso di esso, nel senso sopra enunciato (diremo d’ora in poi “contemplazione nel concreto”). In secondo luogo si tratterebbe di verificare se tali condizioni siano compatibili con quel tipo di sapere sul cosmo, ritenuto oggi certamente valido, la scienza.

Ovviamente non si pretende fornire alcuna risposta esauriente, ma semplicemente offrire qualche frammentario contributo all'impostazione di un problema, che ci appare importante e ineludibile. Infatti una cultura cristiana che evitasse di confrontarsi con esso, sia per un pregiudiziale rifiuto della scienza e del valore del cosmo, sia per una acritica assunzione degli asserti scientifici come aventi una portata immediatamente ontologica,sarebbe inevitabilmente inficiata di fideismo [9]. Non si può andare a Dio dimenticando o disprezzando qualcosa di quel reale, che Lui ha creato. E il Dio di Gesù Cristo e della storia della salvezza, contro qualunque gnosi, è lo stesso Dio creatore del mondo corporeo.p. 70

2. [I presupposti cosmologici di una “contemplazione nel concreto”]

Vediamo anzitutto di riflettere su quali condizioni siano richieste per una contemplazione nel concreto. E qui il nostro discorso dovrà procedere in una forma non strettamente deduttiva, dal momento che dobbiamo supporre in chi vorrà benevolmente leggere queste pagine un minimo di familiarità con la tematica in questione e soprattutto una certa disponibilità a pensare fenomenologicamente, anche a costo di rinunciare ad una chiarezza e distinzione scolastica [12].

Cominciamo partendo dal negativo. Certamente un cosmo in cui non può darsi contemplazione dell’Assoluto nel concreto è quello meccanicistico-materialista: infinito come dimensioni spazio-temporali, e privo di forme e di qualità. Non è qui il luogo di dimostrare filosoficamente che siffatta concezione è falsa: esistono del resto già delle ottime argomentazioni in proposito [13]. Ci preme invece mostrare come essa sia incompatibile con l’idea che qui stiamo trattando.

Da un punto di vista storico, in primis, esiste una connessione tra cosmologia meccanicistico-materialista e irreligiosità. In età antica questo nesso è privo di eccezioni: le uniche filosofie radicalmente atee della antichità, che abbiano fatto una cosmologia, hanno appunto concepito l’universo come infinito, eterno e qualitativamente omogeneo. In età post-medioevale bisognerebbe, è vero, fare delle distinzioni, ma è indubbio che la linea di tendenza è quella esposta [14]. In particolare ci pare legittimo vedere nella interpretazione filosofica, di certo non ingenua, p. 71 della nuova scienza, per cui il cosmo eta appunto ridotto a pura materia estesa in modo locale, una giustificazione di quella mentalità moderna che vede nella realtà oggettuale solo qualcosa di dominabile,senza consistenza profonda. Perché infatti la realtà sia interamente sottoposta al potere e al progetto di una umanità antropocentrica, occorre che essa sia ridotta alla sola quantità, che è perfettamente intelligibile essendo oggetto di quel sapere nitidamente chiaro e distinto,che è la matematica; e quindi sia così espunto da essa ogni traccia del Mistero, quali sono quelle realtà non sviscerabili e non manipolabili, che sono le qualità e le forme sostanziali [15]. Davanti ad un cosmo così concepito non vi è più spazio per un atteggiamento di stupore, per una contemplazione della verità: sempre più il sapere assumerà dei connotati tecnico-strumentali, fino alla esplicita negazione, con Kant, di quella metafisica che era il vertice razionale della contemplazione. È invece il progetto, l’azione volta a trasformare la materia, ad assumere il primato nella società occidentale moderna e contemporanea.

Ci pare evidente, se ora vogliamo dare un giudizio, che tale attivismo non è consono alla visione cristiana della vita. Si potrebbe citare il brano evangelico di Marta e Maria, sul quale in effetti si sviluppano molte delle considerazioni dei medioevali sul rapporto azione/contemplazione. Ma più radicalmente è la natura stessa del Cristianesimo ad essere qui in questione: esso non può concepirsi come ricetta pratica di successo negli affari spirituali, utile per attutire l’angoscia della morte e del male. Come insegnava S.Paolo (1Cor, 15,14-19), saremmo ben miseri se Cristo non fosse davvero risorto. Il Cristianesimo pretende di essere la rivelazione della verità totale e intrascendibile, del Fondamento ultimo dell’essere. È in secondo luogo evidente che tale mentalità attivistica e manipolatrice ha prodotto storicamente degli effetti devastanti sulla vita umana. Essa ha infatti portato ad estendere anche al mondo umano quella considerazione oggettivante e quantificatrice, riferita dapprima alla natura infraumana. Ed è così stata l’humus su cui sono potuti crescere i grandi progetti ideologici di riplasmazione della civiltà.p. 72

I quali hanno come presupposto l’assenza, o l’inincidenza, di una natura umana, di un nucleo profondo non oggettivabile, e la riducibilità dell’uomo ai suoi aspetti fenomenico-quantitativi, esaurientemente investigabili dalla scienza e controllabili mediante opportune tecniche. Si potrebbe a questo punto obiettare che sì, l’attivismo è incompatibile con il Cristianesimo e con un autentico umanesimo (e, a fortiori, con l’idea di cui qui parliamo), ma vi potrebbe essere una cosmologia meccanicistico-materialista integrabile in una visione cristiana di contemplazione nel concreto. A ciò risponderemmo che i tentativi filosofici di accogliere il meccanicismo in un orizzonte cristiano sono sempre stati viziati di fideismo (pensiamo a Malebranche, ad esempio), e non poteva essere altrimenti: la negazione delle forme, sul versante ontologico, comporta la negazione di un principio di azione e di causalità creato, per cui tutto deve essere occasionalisticamente sospeso all’unica causalità divina; sul versante gnoseologico la negazione dell’oggettività delle qualità implica il rifiuto del realismo a livello di quella base fondamentale della umana conoscenza, che è la sensazione. Il che inficia di soggettivismo in genere l’intera gnoseologia, e rende in specie impensabile una contemplazione nel concreto, che è per definizione l’immediatamente percepito: non si contempla qualcosa nell’apparenza, nella doxa; una cosa è il segno, altra cosa l’illusione ingannevole.

La nostra tesi è quindi che soltanto una cosmologia ilemorfico-qualitativa si attaglia al tipo di contemplazione di cui trattiamo. Una cosmologia per la quale il mondo naturale non è inerte materia estesa, ma è permeato di forme [16], ognuna delle quali determinante una sostanza individua e autonoma, ma tutte in qualche modo tuffate nel medesimo p. 73 mare dell’essere e riverberanti la Forma totale, il Verbo nel quale tutto è stato creato [17]. In cui, ancora, da tali molteplici sostanze si irradiano, dal principio materiale gli aspetti quantitativi, e da quello formale quelli qualitativi. Così il mondo reale è davvero quale noi lo percepiamo e non oltre una apparenza illusoria come nel meccanicismo. Il realismo è così fondato senza sinuosità dialettiche e con il realismo il presupposto di ogni contemplazione, che come abbiamo detto chiede di poggiare sulla roccia del reale. E come reali sono le qualità, irradiazioni delle forme, così sono reali le forme, quali irradiazioni del Logos, e come pendici che permettono di risalire la Santa Montagna.

Ci si potrebbe ora domandare perché, se siffatta cosmologia è condizione della contemplazione nel concreto, quest’ultima ha potuto tematizzarsi soltanto nel nostro secolo, mentre l’ilemorfismo è nato prima di Cristo. Al ché noi risponderemmo anzitutto che bisogna distinguere tra condizione necessaria e condizione sufficiente: l’ilemorfismo è una condizione del primo tipo; oltre ad esso infatti occorrono altre condizioni teoretiche, come abbiamo più sopra detto, ed è anche stato probabilmente necessario un certo tipo di sviluppo storico, perché potesse esplicitarsi quell’idea di contemplazione. In secondo luogo la cosmologia ilemorfica, che a nostro sommesso avviso meglio si attaglia alla contemplazione nel concreto, non è comunque l'esatta fotocopia di nessuna concezione già elaborata dagli antichi o dai medioevali. Senza entrare troppo in dettagli ci pare che la prospettiva tomistica dovrebbe essere integrata con l’indirizzo francescano-bonaventuriano in almeno due importanti punti: la concezione della analogia e quella del principium individuationis. La prima dovrebbe garantire, rispetto alla più analitica e disgiuntiva analogia tomistica, quella universale coesione di tutti gli enti che permetta di pensarli raccordati all’unico Verbo, e di Lui rifulgenti [18]. La seconda, complementarmente, dovrebbe fondare il valore della singolarità concreta in quanto tale (nella quale appunto deve essere contemplabile il Verbo), meglio di quanto non faccia la dottrina tomistica della «materia signata quantitate», che finisce con l’assegnare l’importanza decisiva all’universale, al generale.p. 74

Venendo ora alle dimensioni spazio-temporali dobbiamo dire che confà al tipo di contemplazione di cui parliamo una concezione finitistico-qualitativa di esse. Uno spazio finito, anisotropo, diversificato qualitativamente è quello che meglio vi si attaglia. Infatti la indefinita estensione e l’assenza di determinazioni qualitative mal si combinano con un cosmo che veicola un ben determinato Senso: come un discorso composto di infinite parole, tutte eguali, o una parola composta di infinite lettere, tutte eguali e disposte senza ordine, non sarebbero un discorso e una parola comprensibili, sensati [19]. Si potrebbe anche qui obiettare che, perché si dia contemplazione nel concreto, non occorre che tutto il cosmo, che il macro-cosmo, sia finito e qualitativo; basterebbe che lo fosse il micro-cosmo, l’ambito umano-vitale in cui l'Assoluto si comunica. Risponderemmo in modo simile a sopra che non ci si potrebbe così sottrarre al soggettivismo e al fideismo: perché Dio avrebbe creato un mondo infinito e omogeneo per poi immergerci in una ingannevole nuvoletta di apparente qualitatività finita? Non è più semplice (e meno contraddittorio) pensare che vi è corrispondenza tra micro- e macro-cosmo? E il nostro microcosmo non è composto di luoghi qualitativamente indifferenziati. Pensiamo ad esempio alla diversa vibrazione emotiva che si produce in noi in rapporto al diverso luogo in cui ci troviamo. Così in particolare non tutti i luoghi hanno lo stesso valore in ordine alla manifestazione concreta del Verbo. Ve ne sono di privilegiati.

Analogo discorso va fatto con il tempo: anch’esso occorre sia finito, avente un inizio e una fine, e qualitativamente differenziato. L’Eterno si rende incontrabile e contemplabile nel concreto, tanto alla umanità nel suo insieme [20] quanto al singolo,non in maniera immediata, temporalmente indifferenziata, ma secondo una pedagogia graduale e progressiva, in una storia scandita da tappe, ognuna delle quali ha una sua precisa funzione e non è interscambiabile con altre. Del resto già l’esperienza naturale del tempo ce lo fa vivere non come un contenitore universale neutro e omogeneo: basti pensare al succedersi del giorno e del- p. 75 la notte, e delle stagioni; o, più profondamente, al tempo come un avvicinamento continuo al momento finale della morte, come molti filosofi esistenzialisti contemporanei hanno sottolineato,per cui il tempo non può essere pensato come una omogenea linea retta, ma come un segmento qualitativamente differenziato [21].A maggior ragione l’esperienza cristiana vive fortemente le differenze qualitative del tempo: basti pensare, a livello oggettivo-ecclesiale, alla liturgia e, a livello personale, alla concezione della vita come cammino segnato da conversioni sempre più radicali verso la Pienezza finale.

Ricapitolando la condizione cosmologica, diciamo che occorre che il mondo fisico sia permeato di formalità significative, vicarie espressioni del Significato totale, della Parola in cui tutto è stato creato, e che si manifesta dentro un ordine, una determinatezza spaziale-temporale carica di senso. Come poi ciò avvenga riguarda un altro capitolo, peraltro attiguo e connesso a quanto fin qui abbozzato, quello del simbolismo: ogni determinata forma e ogni particolare tipo di circostanza rinvia al Verbo secondo una sua specifica modalità. Anzi ci pare che perché si dia contemplabilità nel concreto, occorre considerare oltre ai simboli archetipici, comuni al genere umano, anche una sorta di simbolismo personale. Ma dobbiamo limitarci a questo breve cenno, per non debordare dal tema propostoci.

La mentalità influenzata da una «cattiva» interpretazione della scienza moderna ci ha da troppo tempo abituati a ridurre la realtà al quantificabile e quindi al manipolabile. In questo modo il nostro sguardo è divenuto sempre più ottuso e debilitato davanti a quella bellezza, che rimanda all’Altro. Occorre rendersi sempre più conto della irragionevolezza di tale esclusione, anche riappropriandosi di un discorso metascientifico sul cosmo, oggi assurdamente vacante o usurpato da sofismi ideologici.p. 76

3. [Uno sguardo sulla scienza del cosmo]

Dobbiamo ora affrontare il problema di un seppur sommario confronto con il sapere scientifico del cosmo. L'immagine del mondo fin qui delineata non è forse un arcaismo insostenibile, che dovrebbe cedere il passo al ben più moderno e fondato discorso scientifico? La risposta che tentiamo si scandisce a due livelli, uno epistemologico, l’altro contenutistico.

È convinzione dei più accreditati epistemologi che nello stabilire la portata ontologica degli asserti scientifici vadano evitati due opposti eccessi: da un lato un ingenuo realismo, per cui essi andrebbero riferiti sic et simpliciter alla realtà, ad una realtà in tutto paragonabile a quella dell’esperienza quotidiana; dall’altro un minimalismo strumentalista, per cui le teorie scientifiche nulla direbbero circa il reale oggettivo [22]. Occorre dire invece che la scienza ha si’ a che fare con l’oggettività del reale; tant’è vero che le è essenziale il momento della verifica sperimentale: una teoria è accolta quando fornisce un quadro concettuale capace di interpretare coerentemente dei fenomeni. Non basta infatti la coerenza interna, senza riferimento al dato sperimentale [23]. La scienza quindi intenziona il reale, parla del reale. D’altro canto essa non lo esaurisce perfettamente: i concetti di cui si avvale, quanto più sono altamen- p. 77 te sofisticati e specializzati, e quindi in grado di interpretare il dato sperimentale in maniera più dettagliata e meno rozzamente generica, tanto più diventano astratti, nel senso di settoriali, ritaglianti un livello specifico di realtà [24]. Tale astrazione, per se’ legittima e necessaria, era già cominciata con la scienza galileiano-newtoniana, che ritagliava, nel reale sensibile, i soli aspetti quantitativi. La scienza contemporanea ha portato a fondo quella matematizzazione del sapere fisico raggiungendo più elevati livelli di aderenza al frastagliato dettaglio del dato sperimentale. Ma in questo modo essa si è ancor più allontanata dall’esperienza primaria e globale, dal senso comune, dalla intuitività immediata: forse è raffigurabile intuitivamente un esteso privo di qualità (come pretendeva fosse l’ente corporeo il meccanicismo), ma il concetto di cronotopo esula totalmente da una rappresentabilità intuitiva, allo stesso modo del concetto di microparticelle di cui non si possano dare contemporaneamente la posizione e la velocità. Il progresso compiuto dalle teorie contemporanee ha avuto in questo senso l’indubbio merito di evidenziare il proprio carattere astratto-simbolico. Il che non significa che esse distorcano il reale: è proprio il reale che esse conoscono e, secondo il loro modo di procedere, spiegano. Ma si tratta di un reale filtrato e selezionato. Fingere che si tratti del reale tout-court, e che la loro conoscenza svisceri esaurientemente le cose, e sia perciò ultima e insuperabile è fonte di grossi equivoci e di mistificazioni. Un’esperienza, diciamo così, secondaria e specialistica non può pretendere di rinnegare l’esperienza primaria, su cui essa si fonda. La conoscenza di un livello particolare non può pretendere di giudicare e rifiutare l’originaria e fondante conoscenza del tutto.

Se l’impostazione epistemologica che abbiamo ora richiamato è esatta siamo meglio aiutati adoperare il confronto di cui sopra abbiamo parlato. Sappiamo che da un lato la scienza, nella misura in cui il suo procedimento è parziale-simbolico, non può interferire direttamente nel lavoro della filosofia sul suo oggetto formale proprio: è la filosofia che, p. 78 basata sull’esperienza primaria, coglie il reale nell’insieme dei suoi fattori (seppur in modo generale e povero di dettagli), né essa può temere di essere smentita o scalzata da quella scienza che opera un approfondimento ulteriore, fondantesi proprio sui suoi (della filosofia) presupposti. D'altro lato poiché, e nella misura in cui, la scienza ha per oggetto materiale quel medesimo reale fisico intenzionato dalla filosofia, questa dovrà valersi dei risultati della scienza, opportunamente rielaborati, per stabilirne con la massima esattezza possibile la portata ontologica, al fine non tanto di correggere, quanto di integrare e arricchire la propria conoscenza [25].

Vediamo dunque di considerare l’integrabilità nella immagine del cosmo sopra delineata di qualche significativa tesi della fisica attuale. Anzitutto per quanto concerne il problema della forma e della sostanza, il riferimento dovrebbe essere sia la teoria dei Quanta, sia la Relatività. Circa la prima è stato detto, con l’autorevole approvazione dello stesso Heisenberg [26], che il principio di indeterminazione segnerebbe la reintroduzione nel mondo microfisico del concetto di potenzialità, fondando così la possibilità che anche nel mondo umano si dia libertà di scelta. A chi scrive però sembra che tale discorso contenga, oltre a non poca confusione di concetti filosofici [27], proprio quella indebita trasposizione di una teoria scientifica in quanto tale sul piano ontico, senza p. 79 adeguato vaglio filosofico. Nemmeno ci sembra legittimo vedere nel medesimo principio un argomento di tipo scettico o idealistico: è impossibile conoscere la realtà oggettiva, ovvero è il soggetto che la costruisce con il suo intervento. Ciò sarebbe vero solo se la conoscenza scientifica fosse l’unica legittima; ma così, come prima ricordato, non è.

Più interessante sarebbe ricercare come l’apparentemente insolubile dualità tra continuità (ondulatoria) e discontinuità (corpuscolare) rimandi alla duplicità dei principî materiale e formale [28]; e su come la struttura ordinata dell’atomo (e degli altri livelli del reale fisico) implichi il concetto di natura e di forma [29]. Concetto quest’ultimo, che ci pare anche implicato nella irriducibilità ad elementi omogenei dei costitutivi ultimi del mondo microfisico, i quali pertanto ci appaiono come qualcosa di qualitativamente diversificato, quindi di «formato». Venendo poi alla Relatività, pur avendo anche qui l’avvertenza di considerare che i concetti di energia e di massa non possono essere trasposti in quanto tali nell'orizzonte ontico della filosofia, ci pare comunque legittimo vedere nella tesi emblematizzabile nella famosa equazione,un superamento del meccanicismo in una direzione più congeniale all’ilemorfismo. La sostanza corporea infatti viene concepita non più come inerte materia, mossa solo dall’esterno per urto locale, ma come capace di sprigionare dal proprio interno attività, energia. Ed è anche per spiegare una simile proprietà che la filosofia scolastica, ben prima di Leibniz, introduceva il principio della forma [30].

Per quanto infine riguarda le dimensioni spaziale e temporale,ci sem- p. 80 bra che il discernimento tra ontico e astratto-simbolico, ci dovrebbe portare da un lato a ritenere che il cronotopo einsteiniano vada inteso in senso prevalentemente simbolico; d’altro lato però tale nozione non potrà essere priva di qualsiasi portata ontologica.

Per il primo aspetto osserviamo non solo che l’unico spazio datoci nella esperienza primaria, nell’intuizione, è quello tridimensionale euclideo e non uno spazio di tipo riemanniano, e che noi sperimentiamo il tempo come una dimensione di altro genere da quelle spaziali; ma che lo stesso fondamento del discorso relativistico ha una portata principalmente intrascientifica e non direttamente ontica.Si postula infatti che la velocità della luce sia insuperabile, e su questo noi nulla possiamo dire, se non che si tratta pur sempre, secondo Wenzl, di una «determinazione arbitraria » [31], di una ipotesi perfettibile e riformabile. Ma soprattutto si postula che la conseguenza di ciò sarebbe la inesistenza della simultaneità tra due eventi situati in diversi punti dell’universo. Ora, poiché la scienza è scienza del misurabile, è intrascientificamente corretto (ci dicono gli esperti) dire che la non-misurabile contemporaneità di due eventi non può essere asserita come esistente. Ma ancora una volta dobbiamo ricordare che la scienza non esaurisce la conoscenza della realtà, e che non esiste solo ciò che è misurabile, riducibile a sapere matematizzato. La simultaneità non è misurabile dalla scienza: bene, questo non significa che non esista. Toccherà alla filosofia dire l’ultima parola, quella concernente l’ontico.

Ma vi è, e siamo così al secondo aspetto,pur qualcosa di vero, di concernente il reale, nel concetto di cronotopo e nelle nozioni ad esso legate. Esso ci appare infatti, a differenza dello Spazio e del Tempo newtoniani, integrabile con l’immagine qualitativo-ilemorfica del cosmo, dal momento che suppone la relatività delle dimensioni spazio-temporali alla sostanza corporea: lo spazio non è indifferente ai corpi che lo «occupano», ma ne è influenzato, la sua curvatura è proporzionata alla massa che vi si concentra. E il concetto di campo, debitamente trattato filosoficamente, si dovrebbe avvicinare non poco al concetto di qualitatività dello spazio, richiamando in qualche modo l’idea di luogo. Non solo, ma connessa a questo gruppo di concetti vi è pure la tesi,anch’essa confacente ad una cosmologia corretta, della finitudine delle dimensioni spazio-temporali del mondo fisico: l’Universo della Relatività è un universo finito [32].p. 81

Che poi la stessa temporalità non sia qualcosa di assoluto, ma sia legata al divenire dell’ente corporeo, e in qualche modo sia addirittura relativa ai diversi sistemi di riferimento in cui è divisibile l’universo, ciò può ben essere integrato nell’immagine del cosmo delineata. Non già nel senso che il divenire non sia reale e che la simultaneità tra i diversi punti dell’universo non esista, come sarebbe da ritenersi accogliendo senza vaglio filosofico l’idea einsteiniana di cronotopo; ma piuttosto in quanto ciò conferma e specifica che il tempo è sempre di qualche sostanza corporea, e non un flusso neutro ed indifferenziato.

Conclusione

Ci siamo limitati a qualche breve cenno, data anche la natura di questo articolo e della rivista che lo ospita. Lo abbiamo fatto consapevoli del rischio di essere giudicati precipitosi o azzardati. Crediamo però che valga la pena, a costo di commettere errori o ingenuità, non abbandonare un ambito così importante come quello cosmologico. Se quanto siamo andati affermando è esatto ci pare poter concludere che la cosmologia scientifica contemporanea non è contrastante con l’immagine del mondo, che abbiamo indicato come confacentesi alla contemplabilità dell’Assoluto nel concreto. Abbiamo anche detto che esistono altre condizioni, oltre a quella cosmologica: contiamo, se ne avremo la possibilità, di comunicare qualche nostra riflessione in proposito attraverso le pagine di questa rivista.p. 82

Francesco Bertoldi, nato nel 1958, si è laureato in filosofia con una tesi sulla modernità in H. de Lubac, presso l’Università Cattolica di Milano. Attualmente insegna filosofia nelle Scuole Superiori. p. 83

note


[1] Non è difficile capire come tale impostazione, non poggiando sulla energia infinita dell’Assoluto, risanante e trasfigurante una concretezza incontrabile, dovesse inevitabilmente arenarsi tra gli opposti scogli di un moralismo di tipo kantiano, che tenta di imbrigliare la ribelle particolarità in una astratta e soffocante universalità, e di una hegeliana « accettazione » della concretezza storica nel suo comunque razionale e giusto darsi. Mentre per il Cristianesimo non «tutto ciò che è reale è razionale», il male insidia e corrode realmente il mondo umano.Certo, ultimamente il Cristo è la Sintesi di tutto, e lo stesso male viene in qualche modo ordinato al bene totale, ma in modo per noi misterioso e destinato a svelarsi e a compiersi non nella storia, ma escatologicamente. D'altra parte (contro Kant e molto kantismo inconsapevole), se non tutto il singolare, nel mondo umano, è buono, è almeno a partire da un Singolare storico e concreto e non da una universalità astratta, che può cominciare la vera attuazione dell’umano.

[2] Si può obiettare che questa posizione non è originale, sia che si pensi al «giusto mezzo» costituito dall’aristotelismo tra l'eccesso empiristico (la sola sensazione) e quello razionalistico-innatista (il solo pensiero), sia che si pensi alla sintesi kantiana (né i soli concetti, vuoti senza intuizioni, né le sole intuizioni, cieche senza i concetti). In realtà Guardini sviluppa il suo discorso da una diversa angolatura, esistenziale, ignota tanto ad Aristotele che a Kant, per cui quando egli parla, ad esempio, di sensazione intende riferirsi ad un vissuto che per la sua globalità e la sua densità non è coestensivo alla sensazione in senso asetticamente tecnico,di cui parlano i due citati filosofi.

[3] Per una rapida presentazione ci permettiamo di rinviare al nostro «Il valore cristiano del mondo in Pierre Teilhard de Chardin », in Communio, n.83/4, 1985, pagg. 44/51. Per un approfondimento ci pare esemplare Il pensiero religioso di P.Teilhard de Chardin di Henti de Lubac, tr. it. Jaca Book, 1983.

[4] Cfr. Christologie et évolution, vol. X, ed. DuSeuil, Paris 1969, pagg. 111/2.

[5] Ovviamente la bellezza di cui si parla non è solo né soprattutto quella artistica o quella naturale (ivi inclusa la bellezza fisica umana), le quali hanno, in questa prospettiva teologica, un valore pedagogico: si tratta piuttosto e innanzi tutto della bellezza dell’Evento rivelativo-salvifico di Cristo e della Sua Chiesa.

[6] Ne deriva, sul piano esistenziale, una modalità di vivere il cristianesimo da un lato pienamente umana, salvaguardante fino in fondo (e ben meglio di qualunque materialismo ed umanesimo atei) i diritti della concretezza, attese, bisogni, speranze, paure dell’uomo reale, e dall’altro onnicomprensiva e totalizzante, poiché nella carne umano-ecclesiale è il Verbo eterno che si comunica e chiede di assimilarci alla Sua infinita misura («siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli»).

[7] Il soggetto infatti non ha nei confronti delle cose, delle persone e degli eventi singolari che lo circondano un atteggiamento unicamente conoscitivo-contemplativo, ma anche (e psicologicamente è questo il lato che prevale) pratico-attivo: per questo il riconoscimento della Verità totale dentro tale Lebenswelt implica un coinvolgimento non del solo intelletto contemplante, ma altresì della volontà, principio di azione. In altri termini il problema della verità non è disgiungibile da quello della vita. Se infatti è vero che l’intelletto è aperto all’essere e capace di giudizio vero (così che la contemplazione è possibile), è altrettanto vero che nelle condizioni concrete di esercizio, è la volontà che dispone l’intelletto a mantenersi aperto al reale e sincero verso l'evidenza (e in questo senso la contemplazione non è disgiungibile dall’azione, il vero dal bene: cfr. S.TH,1a, q.82, a. 3 e 4; IaIIae, q.58; a.5 e IIa IIae, q. 162, a. 3, ad 1um),

[8] In gioco vi è tutta una impostazione del rapporto natura-soprannaturale,in cui sia garantita la centralità e la presenza del Soprannaturale nel naturale; tutta una cristologia, in cui il Cristo non sia ridotto a Riparatore della natura, accentuando il carattere circoscritto nello spazio e nel tempo della Sua umanità individuale, ma sia visto come il Verbo che permea di Sé il cosmo e la storia, nella cui concretezza sia quindi presente e incontrabile; e tutta una ecclesiologia, che declini le modalità, non latitudinaristico-sincretistiche, ma neanche angustamente moralistiche, di incontro col Verbo incarnato.

[9] E qui sarebbe da focalizzarsi soprattutto il problema del male, di come esso possa non infirmare la contemplabilità del Bene assoluto dentro quella concretezza umana, che è corrosa dal peccato.Sul tema del male e del rapporto grazia-libertà esistono abbondanti riflessioni nella Tradizione cristiana; anche se manca una applicazione di esso al problema qui posto della contemplazione nel concreto.

[10] Abbiamo già detto nella nota 7 in che senso intelletto e volontà concorrano alla contemplazione nel concreto. Per quanto riguarda il versante oggettivo molte riflessioni interessanti si trovano nella tradizione ortodossa (cfr.V. Losskij, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, tr. it.il Mulino, Bologna); preziose anche le osservazioni di von Balthasar nei volumi della Teodrammatica.

[11] Cfr. Maritain, La filosofia della natura, tr.it. Morcelliana, Brescia 1977, 3, pagg. 63/84. Non sarebbe credibile una filosofia religiosa poggiante esclusivamente sul soggetto, sulla interiorità, rinunciando ad ogni presa sul reale corporeo, l’oggettività cosmica: sarebbe appunto un ripiegamento fideistico-sentimentale.

[12] Come dice Grygiel pensare non è giocare con i cubetti delle idee, mirando anzitutto e soprattutto alle concatenazioni interne del logos, ma implica un continuo riferimento al dato reale.

[13] Cfr. già Aristotele, Fisica, 4-8e6,207a 7-15 (sull’impossibilità in genere di un infinito in atto) e nel libro Delta della medesima Fisica 4e5.

[14] Si potrebbe obiettare che i due grandi fondatori del meccanicismo moderno, Galileo e Newton, non erano atei, e nemmeno irreligiosi. Al che risponderemmo anzitutto che, nella misura in cui essi erano scienziati e non filosofi,il meccanicismo da essi postulato esula dal nostro discorso; esso si limita infatti a dichiarare le qualità e le forme non interessanti la costruzione del sapere scientifico, ma non inesistenti. Nella misura invece in cui il loro meccanicismo era filosofico (concernendo l’esistenza delle forme) esso era connesso ad un atteggiamento, che se non poteva, dati i tempi, essere ateo, era quantomeno areligioso. Senza entrare in controverse questioni storiografiche ci pare di poter dire che il primo versante,scientifico, era in entrambi prevalente, pur non essendo assente anche il secondo. E in effetti nessuno dei due appare particolarmente e sinceramente appassionato alla ricostruzione di una cultura cristiana unitaria, informata dalla fede.

[15] Cfr. S. Grygiel, L'uomo visto dalla Vistola, Bologna 1978, ad esempio pagg. 234 segg. Lo spirito di un certo capitalismo, riduttore di ogni realtà a quantità oggettivabile e dominabile, trova verosimilmente anche qui una delle sue giustificazioni teoriche. Non nella scienza, ma in una interessata interpretazione di essa. La scienza fisico-matematica infatti prescinde dalle qualità e dalle forme per la sua costruzione, ma non nega, né può negare che esse esistano; così come la medicina prescinde dai dati della astronomia o della geologia, ma non perciò nega,né può negare che esistano gli astri e la terra.

[16] Non è qui sede opportuna per approfondire il problema della unicità o pluralità delle forme sostanziali. Probabilmente una soluzione adeguata del problema supporrebbe una ricalibratura dei termini in cui esso è stato posto. Quel che ci pare da tenersi fermo è che, da un lato esistono più sostanze corporee, ognuna delle quali ha un principio unificatore formale e dunque una sua autonoma consistenza ontica (con S. Tommaso, contro ogni cripto-panteismo soprannaturalistico), e d’altro lato esistono, all’interno di ogni sostanza (e tanto più quanto più essa è di tipo superiore) diversi livelli ontologici, in corrispondenza di ciò che le scienze specifiche (biologia, chimica e fisica) chiamano apparati, organi, fibre, cellule, molecole, atomi, particelle subatomiche; per cui una parte di verità bisognerà pur riconoscerla anche alla tesi agostinista-bonaventuriana di una pluralità di forme che ci pare, se debitamente intesa, utile a fondare da un lato la non semplicità delle sostanze corporee e dall’altro la loro universale comunione, se così possiamo esprimerci, radicata non solo nella identità indeterminata della materia, ma anche nelle determinazioni formali «inferiori».

[17] Suggestivamente G.M. Hopkins, non a caso influenzato filosoficamente da Duns Scoto, contempla esultante e stupefatto la presenza del Verbo nel cosmo in “Hurrahing in Harvest” (in Poems, New York 1948): «And the azurous hung hills are His world-wielding shoulder Majestic-as a stallion stalwart, very-violet-sweet!».

[18] Cfr. E. Gilson, La Philosophie de St.Bonaventure, ed. Vrin, Paris 1984 2, cap. VII, pagg. 189/91.

[19] Al tempo stesso per quanto riguarda non il vedere ma l’essere visto, un cosmo infinito ci appare connesso con una idea di nascondimento e di opacità, di sottrazione allo sguardo. Certo ciò è qualcosa di più psicologico che rigoroso: Dio potrebbe benissimo conoscere ogni punto di uno spazio infinito. E tuttavia si tratta di una connessione ben difficile da sciogliere. Sul valore culturale delle concezioni dello spazio cfr. Max Jammer, The History of Theories of Space in Physics, Cambridge (U.S.A.) 1954 (tr. it. Feltrinelli 1966).

[20] Cfr. Catholicisme, di H. de Lubac,cap. VIII, pag. 181 segg. nella trad. it. Jaca Book 1978.

[21] Pensiamo ovviamente innanzitutto ad Heidegger. Ma sul tema della qualitatività e della irreversibilità del tempo esistenziale (diverso dal tempo postulato per gli esperimenti scientifici) Bergson ha detto delle cose molto interessanti. Del resto già la definizione aristotelica del tempo lo relaziona essenzialmente alla sostanza che diviene, e in questo senso è possibile una concezione qualitativa di esso (che tuttavia, in un contesto come quello aristotelico, va poi a cozzare contro la tesi di una durata infinita del divenire cosmico).

[22] Cfr. E. Agazzi, Temi e problemi di filosofia della fisica, ed.Abete, Roma 1969, cap. 10, pagg. 312/6. Nel primo caso si potrebbe ad esempio parlate di protoni e di elettroni come delle assai minuscole biglie, diverse solo per dimensioni, o per altre insignificanti caratteristiche dalle biglie che noi conosciamo nella nostra esperienza quotidiana. Così come facevano i fisici «del tempo della regina Vittoria», come amava ricordare divertito Maritain, quando parlavano dell’atomo. O ancora si dovrebbe ritenere che quando Einstein parlava di continuo quadridimensionale, affermava che in realtà, ontologicamente, il tempo è una dimensione in tutto analoga alle tre dimensioni spaziali. Affermando così una immagine parmenidea dell’ente finito, immobilizzato in una eterna ragnatela spaziotemporale, in cui nulla davvero avviene, poiché nulla diviene (cfr. A. Wenzl, “Teoria della relatività e realismo critico” in AA.VV., A. Einstein scienziato e filosofo, tr.it. Einaudi,Torino 1958, pag. 531/2). Nel secondo caso invece la consapevolezza del carattere simbolico e ipotetico-convenzionale degli assetti scientifici arriva al punto di negare ogni presa oggettiva sul nucleo profondo, noumenico, del reale fisico. Per cui non avrebbe neppur senso dire che una teoria, che viene imponendosi nella comunità scientifica è più vera di quella che viene abbandonata: si tratterebbe solo di un passaggio, in larga misura arbitrario, determinato da fattori ideologici o comunque extrascientifici.

[23] Cfr. J. Maritain, La filosofia della natura,tr. it. Morcelliana, Brescia 1977, pagg. 52/61. Sappiamo bene che il termine «dato» richiederebbe,se si dovesse fare un discorso specialistico, molte precisazioni, ma in questa sede riteniamo si tratti di una approssimazione accettabile. Osserviamo anche, en passant,che se è vero che, pur in modo simbolico-astratto, la scienza coglie il reale e ne è misurata, avrà senso dire che le teorie fisiche contemporanee sono più vere, meno inadeguate, della scienza galileiano-newtoniana, approssimandosi con minore infedeltà alla particolarità sperimentabile del cosmo.

[24] Cfr. F. Botturi, Struttura e soggettività, ed. Vita e Pensiero, Milano 1976, parte I, capp. 2/5 (passim).

[25] È questo il costante insegnamento di Maritain da I gradi del sapere a La filosofia della natura e a Scienza e saggezza. Su posizioni abbastanza vicine il già citato Agazzi. Diversa, ovviamente, la posizione neopositivista: cfr. Ph. Frank, La scienza moderna e la sua filosofia, tr. it. il Mulino, Bologna 1973, ad esempio pag.192 o pagg. 228/31.

[26] Physics and Philosophy, 1958, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1961, Fisica e filosofia. La ricorrente difficoltà è che tra filosofia e fisica sembra ormai esistere un vero abisso: i fisici dimostrano quasi senza eccezione di non capire adeguatamente i concetti filosofici; e a loro volta i filosofi non sono nella condizione di comprendere in modo profondo e appropriato gli ormai troppo specialistici linguaggi della fisica (così in E. Agazzi, op. cit., pag. 33/7).

[27] Non è affatto necessario, per fondare la libertà dello spirito,affermare la casualità nella materia. Anzitutto perché la libertà è cosa ben diversa dalla casualità. In secondo luogo perché il livello spirituale è diverso e irriducibile a quello materiale, per cui possono benissimo essere retti da leggi di diverso tipo. Senza contare che la potenzialità come la sembra intendere Heisenberg, cioè appunto come casualità, non è affatto la potenzialità della filosofia cristiana, anzi è incompatibile con il fondamentale principio di non-contraddizione. Il caso non è compatibile con la intelligibilità del reale, né con Dio,che ne è il sapientissimo Artefice. «Dio non gioca ai dadi» diceva a questo proposito, polemicamente, Einstein.

[28] Opposizione al cui proposito è stato proposto da Niels Bohr il principio di complementarietà,che però appare ad autorevoli studiosi una soluzione insoddisfacente ed evasiva (così Schroedinger, citato da Agazzi, op. cit., pag.255 segg.). Cfr. anche A. Wenzl, art. cit., pag.543/4.

[29] È noto ad esempio, che gli elettroni non si dispongono su orbite casuali o modificabili arbitrariamente da forze esterne, come ci si dovrebbe aspettare in una prospettiva materialistica, ma rispondono a precise leggi, che quindi rinviano ad una intima natura, alla forza dell'atomo, cui ineriscono.

[30] Presentiamo questa tesi come una ipotesi di lavoro, oltretutto appena abbozzata. Aggiungiamo che tale accostamento viene evitato sia da R. Jolivet, nel suo Trattato di filosofia,tr. it. Morcelliana, Brescia, vol. IV, pagg.93/4, sia dalla Vanni Rovighi, in Elementidi filosofia, ed.La Scuola, Brescia 1976, vol. III, pagg.64/5. Entrambi questi autori ritengono che i concetti relativistici in questione non possono in alcun modo essere «trattati» filosoficamente. Di diverso parere Maritain, ad esempio in La filosofia della natura, cit., pag.116/7, secondo cui il filosofo deve continuamente cercare di interpretare i fatti scientifici, traendone «i valori filosofici di cui sono pregni » (p. 116).

[31] Art. cit., pag. 531.

[32] È nota la formula di Einstein secondo cui il cosmo è finito, benché illimitato. Dal punto di vista filosofico è il primo aggettivo ad essere decisivo. Non abbiamo parlato, in questo saggio, della rivoluzione copernicana e del suo significato ai fini della contemplabilità del concreto. Non sarebbe comunque difficile mostrare quanto anch'essa, come tutte le scoperte astronomiche successive, ben si attaglia al nostro discorso. Ad esempio la centralità del sole potrebbe essere letta come simbolo della centralità del Verbo incarnato, che è ben raffigurato da quel corpo celeste che illumina e da’ energia (come il Cristo fa con mente e cuore), consumandosi in una sorta di gigantesco sacrificio di se’. Che poi l’umanità sia oggetto della attenzione del provvidente Creatore sarebbe sufficientemente simboleggiato dalla ottimale distanza della Terra (in qualche modo raffigurazione dell'umanità) dal sole. La vastità quasi illimitata del cosmo inoltre meglio si conforma a rappresentare l’infinita Maestà di Dio del rattrappito universo dei greci.In questo contesto il fatto che lo stesso sole non possa essere più ritenuto centro del mondo, può richiamare simbolicamente che nel Cristo la Sua Umanità (la determinatezza visibile del sole) non ne esaurisce la Persona, ma ne veicola l’infinita Divinità (simbolicamente raffigurata nella vastità dello spazio cosmico).